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venerdì 18 gennaio 2013

É nell'uomo il diritto


Il presente politico ed economico dell'Europa fa sorgere spontaneamente un semplice quanto urgente interrogativo: esiste ancora per quei diritti fondamentali quali per esempio lavoro, sanità, istruzione, quella sfera d'inviolabilità sancita non da una carta costituzionale o da una qualunque legge di Stato, ma bensì dallo sforzo compiuto, da una faticosa conquista sociale  nel cammino di un popolo?
Se prendiamo in considerazione la progressiva negazione di tali diritti in Europa (vedi Grecia, Spagna, Portogallo) dare una risposta affermativa a tale domanda è poco probabile, anzi diciamola tutta: è impossibile. Quando poi si guarda la situazione italiana l'esito della domanda non può essere che confermato: ad esempio, gli ultimi dati Istat (novembre 2012) sulla disoccupazione in Italia restano come ormai d'abitudine nel quadro dell'emergenza sociale; l'11,1% è quella totale, il 37,1 la percentuale che riguarda i giovani tra i 15 e i 24 anni ed è in forte calo anche l'occupazione maschile. 
Inoltre, il sistema di assistenza sanitaria e quello d'istruzione sono ormai al collasso. Il diritto alla prima muore insieme ai pazienti nei corridoi di ospedali senza posti letto a causa di tagli indiscriminati; la seconda oltre per l'ormai annosa mancanza di fondi soffoca per l'assenza di un serio e aggiornato piano d' istruzione superiore e universitaria, in cui l'interesse privato si è già inserito negli atenei stravolti che finiranno per essere gestiti come una normale azienda commerciale.
Il problema principale sulla questione dei diritti fondamentali  non più riconosciuti, è nell'identificazione degli stessi con l'istituzione statale. 
Il tragico "equivoco" è insito nel riconoscere la figura dello Stato non come organizzatore ultimo del diritto, cioè l'organo che mette i cittadini nella condizione di poterne godere in libertà, ma ne è invece di fatto la fonte, ponendo l'istituzione in una posizione dominante rispetto allo stesso diritto. A questo punto non è sbagliato definirlo un tragico errore. Lasciare questa facoltà ad un qualunque potere sia esso statale o privato significa avere del diritto una visione verticistica, dove in alto vi è chi lo distribuisce secondo i propri criteri e in basso l'ultima parte, dove si trova proprio chi quel diritto lo dovrebbe godere in assoluta pienezza.
Eppure ci si doveva accorgere del vicolo cieco quando la parola "diritto" venne trascinata in un lessico che non le apparteneva, in cui viene definito come un semplice "servizio" erogato dallo Stato, cioè un potere insieme politico ed economico che concede un diritto a chi lo dovrebbe già possedere. Quindi via con il "mantra" del "bravo cittadino" che paga le tasse per avere un servizio; studenti che pagano la tassa  per il "diritto" allo studio; lavoratori che si vedono decurtato parte del loro guadagno senza nemmeno vederlo. 
Il momento storico che stiamo vivendo sta però aprendo scenari forse ben peggiori, in cui la stessa concezione di Stato è già di fatto superata da quella economico-finanziaria e quindi annientata da un progressivo passaggio di poteri dall'uno all'altra(vedi UE), assumendo quest'ultima, la stessa posizione di vertice dominante dello Stato ma tesa allo sfruttamento di tale sistema in una visione privatistico-economica il cui risultato finale è ancora oscuro.
La migliore assicurazione per il mantenimento di questo schema è il collegamento che esiste fra il vertice già citato e la base (cittadini) che per sopravvivere deve necessariamente, che piaccia o no, subirne il peso politico ed economico. Rompere questo circolo vizioso non è né semplice né di breve scadenza.
Costruire l'alternativa a tale sistema vuol dire ripartire dai diritti fondamentali di ogni uomo, eliminando nettamente ogni visione verticistica di essi, resi inviolabili perché impressi nel cammino di una faticosa conquista sociale. 



Giuseppe Pennestrì

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