Guerra in atto. Non
solo a Gaza, ma anche nella West Bank.
Il risveglio della
gente non si sente solo nell’aria ma anche nelle piazze, ai check
points e vicino alle colonie Israeliane.
Il grido forte di
questi giovani non è solo di dire basta a quest’occupazione ma di
dimostrare la propria solidarietà ai cittadini e fratelli di Gaza.
Da mercoledì 14 da
quando sono iniziati gli scontri ci sono state manifestazioni a
Ramallah, Nablus, Qualandia, Ofer e Betlemme.
Proteste e scontri
in particolare a Qualandia dove la presunta uccisione di una neonata
da parte di un gas lacrimogeno ha scatenato una vera e propria
guerriglia urbana con lancio di pietre ed esercito israeliano in
azione nel campo profughi.
Gli scontri stanno
continuando anche adesso e i protagonisti solo loro: i giovani.
Migliaia di ragazze
e ragazzi che tirano pietre, rialzano la bandiera palestinese e
urlano slogan contro gli occupanti. Urlano che non ci stanno, gridano
la loro solidarietà ai fratelli e le sorelle Gazawi.
Qualcuno parla di
una terza intifada, altri richiamano e incitano il popolo Palestine a
rialzarsi per i propri diritti. Dal 2004 la situazione economica in
particolare a Ramallah si è distesa, tanti soldi girano e il
benessere ha contribuito alla normalizzazione di quest’occupazione
che continua a farsi sentire in tutte le sfere della vita quotidiana.
Si sono create delle bolle di normalità in tutta la West Bank che
adesso, con il ritorno della guerra a Gaza, stanno esplodendo
lentamente ma con forza.
I giornali
internazionali tacciono, probabilmente non vogliono “impaurire”,
non vogliono allarmare la gente che tranquilla continua la sua vita
di tutti i giorni. Ma allora cosa vuol dire informare? Ieri e oggi
hanno bombardato a Gaza la sede sei giornalisti, un attacco mirato,
voluto e cercato.
Dobbiamo svegliarci
e sentirci tutti responsabili per le atrocità che stanno accadendo a
Gaza. Uno stato che si definisce l’unica democrazia del Medio
Oriente sta deliberatamente attaccando un popolo che è stato
soggiogato e privato di ogni dignità e diritto umano. Le guerre non
sono mai paritarie e questa ne è un esempio clamoroso. Siamo tutti
partecipi e tutti stiamo guardando mentre Stati Uniti ed Europa
acclamano il diritto di difesa di Israele mentre quello Palestinese e
dei gazawi sembra non esistere quasi che non fossero umani, quasi che
si meritassero di morire.
Mi chiedo
costantemente cosa avrei deciso di fare se fossi nata e cresciuta in
Israele. Avrei anch’io una camicia color cachi addosso e un fucile
in mano pronta ad andare a sparare al nemico, al “terrorista”,
pronta a morire per la mia patria?
Guardo Renen con i
suoi occhi color cenere e la sua pelle olivastra. Lui ha fatto una
scelta di vita forte e radicale. Ha detto basta alla propaganda che
gli hanno sottoposto per anni nel suo kibbutz a sud di Israele, si è
fatto delle domande sul popolo che abitava prima questa terra e ha
chiesto risposte chiare che nessuno gli ha mai dato. Non voleva fare
il servizio militare ed è stato diseredato dalla sua famiglia, dai
suoi amici, dalla sua comunità.
Renen che è uno
degli anarchici contro il muro, gruppo di attivisti Israeliani che
cerca di promuovere un po’ di awarness nella società Israelita
attraverso manifestazioni, azioni di boicottaggio e partecipando a
manifestazioni in tutta la Palestina. Lui due giorni fa era tra
quelli che gridavano “Gaza will Prevail” in piazza Habima a Tel
Aviv mentre suo fratello si preparava a riprendere le armi in mano e
andare a combattere per il suo paese. Sua madre grida che non importa
se lui morirà perché lo farà per salvare la sua patria. Due
fratelli, stessa infanzia, stessi genitori, stesso ambienti e due
scelte opposte.
Suono di tastiere in
movimento, cervelli e cuori in tormento, occhi spossati da pianti e
vissuti che è difficile da manifestare. Questa è la situazione
nella casa dei cooperanti italiani tornati ieri da Gaza. Voglia di
cooperare davvero e di essere tra la gente di gaza, di essere lì con
loro per raccontare da vicino, per non lasciarli soli. Lo shock
emotivo è forte e non si può digerire in due giorni. Forti nel
voler gridare al mondo quello che sta succedendo a Gaza e in tutta la
Palestina.
Guardo questi
giovani con le kefie fasciate in torno alla testa, i loro occhi
profondi, la loro grinta nel tirare pietre agli occupanti chiusi
nelle loro camionette e dietro corazze di mitragliatrici e scudi.
Corrono e incitano slogan di libertà e giustizia. Queste nuove
generazioni hanno vissuto dei ricordi dei loro nonni di una Palestina
libera, sono cresciuti nell’ombra delle lotte dei loro genitori che
hanno vissuto entrambe le due intifade, sono i protagonisti di
un’occupazione quotidiana che li fa aspettare due ore al check
point per poter andare all’università. Possono fare finta che non
ci sia, possono coccolarsi comodi in questo finto benessere economico
che nasconde e porta in secondo piano la situazione, ma non riescono
a dimenticare la verità. Sono chiusi in una pentola pressione che
può esplodere in ogni momento.
Gaza, un’altra
guerra. Una guerra che forse per la prima volta è stata trasmessa
attraverso internet e twitter, facebook, foto istantanee, grida di
parole che chiedono risposta e giustizia.
Viviamo in un’epoca
piena di contraddizioni e bellezze. Abbiamo il privilegio di avere
accesso a più informazioni (anche se sfruttate) che in passato, di
sentirci connessi e vicini a quello che succede dall’altra parte
dell’emisfero.
La guerra di Gaza ci
ha permesso di sapere che 2 secondi fa un bambino di 18 mesi ha perso
la vita, che 2 ore fa 18 membri di una stessa famiglia sono stati
sterminati, ma ci permette anche di vedere attivi in ogni parte del
globo esseri umani che da Parigi ad Hong Kong dicono basta, gridano,
urlano e si fanno arrestare in nome di un popolo che è forte, che ha
già vinto, che combatte e rimane umano nonostante tutte le
sofferenze che ha e sta provando.
Correte,
correte cari Israeliani nei vostri tiepidi e sicuri bunker. Correte
quando suonano le sirene e poi tornate a bere tranquilli i vostri
caffè. Siete voi i perdenti, qui proprio a 50 km dalle vostre
spiagge ovattate c’è un popolo che forte resiste, c’è una
Palestina che si sta rialzando e che sta lottando per ritornare
libera. E noi siamo con loro: ieri, oggi, domani per sempre.
Da Ramallah
Sara Datturi
Da Ramallah
Sara Datturi
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