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venerdì 15 ottobre 2010

PER I DOLLARI E L'ORO NERO


9 Ottobre 2010, giornata di dolore in Italia per la morte di quattro suoi militari mandati in missione in Afghanistan, caduti a seguito di un attacco talebano. La commedia di Stato, come sempre, non si è fatta attendere e presto si è espressa la “solidale partecipazione al dolore dei familiari dei caduti”, con tanto di faccine tristi e toni da concorrenza alle migliori rappresentazioni melodrammatiche.
Ora, certo non ci rallegriamo della morte di quattro persone, ma non possiamo non essere indignati di fronte a tanta ipocrisia, alla falsità di chi per motivi del tutto abbietti manda povera gente a morire per poi, quasi non si trattasse di naturali conseguenze, rattristarsi pubblicamente delle perdite.
Questa guerra ingiustificata, o forse giustificatissima se si ragiona in termini di industria bellica e petrolio, ha numeri che lasciano senza fiato: più di 300 miliardi i dollari spesi solo dagli usa e più di 300 milioni di euro al semestre sborsati dal nostro Stato; i nostri morti sono in tutto 34 dall’inizio della missione isaf (missione onu) nel 2004; più di 2000 i militari stranieri morti dal 2001 a oggi, appartenenti alla coalizione US-NATO. Già queste sono cifre da capogiro, ma il peggio lo dobbiamo ancora raccontare: poco più di 14 mila i civili afghani caduti a seguito di bombardamenti e combattimenti e circa 20 mila le uccisioni di civili da parte degli insorgenti e delle forze alleate, per un totale di più di 34 mila morti, tra vittime dirette e indirette del conflitto; 34 mila donne, uomini e bambini che non c’entravano niente e che questa guerra non l’hanno voluta (stime compiute da diversi organi: Project of Defence Alternatives, L.A.Times, Guardian , rierche del prof M.W Herold dell’università del New Hampshire, Human Wright Watch, Afghan Rights Monitor, e UNAMA).
Detto ciò, sfidiamo chiunque a continuare a commemorare ipocritamente quattro persone, in nome forse di un banale (e inutile) patriottismo, o per la convinzione di essere lì come liberatori ed esportatori di sana civiltà e democrazia; a questo riguardo i fatti parlano chiaramente: dall’inizio del conflitto il terrorismo è aumentato, i talebani sono più forti e il territorio che essi controllano più ampio.
Una riflessione quindi non può che partire dalle vittime, tutte quante; dai morti afghani e dai civili che vivono sotto scacco dell’occupante e nel terrore di una guerra senza fine, dai soldati morti e da quelli vivi, che domani forse moriranno, o che riusciranno a tornare a casa un giorno, portandosi a vita immagini indelebili. A questo punto,forte si impone una domanda: quale popolo civile manderebbe i suoi figli a morire? E anche ammesso, per assurdo a nostro avviso, che possa esistere una causa così rilevante da giustificare la guerra di uno Stato nei confronti di un altro, il quesito si fa più difficile per gli alleati se si guarda ai veri motivi di questo conflitto, i soliti, quelli che condanniamo ogni giorno, “perché il mercato e l’economia contano più delle persone, per i dollari e l’oro nero..”; le ragioni sono essenzialmente due, neanche a dirlo entrambe di natura economica.
Il primo riguarda le ingenti risorse naturali del Medio Oriente e dell’Asia centrale. L’Afghanistan non è ricco in sé, è un Paese povero di risorse e arido, ma è la sua posizione strategica dal punto di vista geografico, geopolitico e geoeconomico a fare gola agli occupanti. Il mar Caspio, infatti, è ricchissimo di petrolio (secondo recenti stime le riserve ammonterebbero a 200 miliardi di barili, per capirci, gli usa sarebbero a posto per trent’anni) e ingenti riserve di gas e petrolio si trovano anche nei Paesi limitrofi, come l’Uzbekistan, il Turkmenistan, il Kazakistan o l’Azerbaigian. Assumere il controllo di un area come l’Afghanistan quindi significherebbe da un lato poter navigare nell’oro (nero) e dall’altro impedire che le vicine Cina, India e Russia possano mettere mano su quell’autentica ricchezza, una questione di concorrenza dunque. Proprio lo Stato afghano è la cerniera tra i paesi centroasiatici e le nuove potenze mondiali, la sua posizione strategica appare chiaramente.
Poi abbiamo un fatturato di centinaia di miliardi di dollari, che l’industria bellica accumula dal 2001, con auree prospettive anche per il futuro, nell’ottica di una guerra infinita contro il terrorismo.
Fare la guerra infatti conviene, per la stretta correlazione esistente tra espansione economica e periodi di conflitto, confermata sul sito di un istituto governativo come il National Bureau of Economic Research, basti guardare i dati delle seconda guerra mondiale, o quelli della guerra in Corea, in Vietnam, nel Golfo, fino agli ultimi dell’occupazione irachena.
Altro che guerra preventiva contro il terrorismo, o legittima difesa in seguito all’attacco dell’11 settembre (giustificazioni comunque insostenibili addirittura per l’accomodante diritto internazionale), l’Afghanistan era nella “lista preferiti” degli USA già da tempo: un report del Foreign Policy in Focus, riferiva di un aumento delle spese militari già nel gennaio 2001, spese fatte lievitare dai 291miliardi di dollari del 1998 alla modica cifra di 310 miliardi, previsti per il bilancio 2001; mentre già a luglio, nell’ottica certo di una prevenzione che si fa addirittura premonizione, secondo un’inchiesta della Bbc, gli USA avrebbero annunciato un attacco imminente, qualora i talebani non avessero consegnato Bin Laden alle autorità americane.
Questo atteggiamento guerrafondaio rispecchia un po’ tutta la storia di uno dei Paesi considerati tra i più democratici e civili del mondo, la cui solidità si è mantenuta proprio grazie ad una politica di welfare-warfare.
Da una parte è necessario un intervento statale di welfare (minimo, non certo ‘invasivo’, sono gli Stati uniti, mica una Repubblica socialista!) volto ad assicurasi il consenso necessario tra la gente; un prezzo questo, che ognuno dei Paesi liberalcapitalistici è tenuto a pagare per preservarsi da un altrimenti inevitabile malcontento che s’ingenererebbe, di fronte a sistemi non costruiti per la persona, anzi ad essa estranei.
Dall’altro, una politica di warfare, a sostegno dell’economia. L’industria statunitense è infatti in gran parte collegata al settore bellico, per cui aumentare il bilancio della difesa vuol dire finanziare un cospicuo settore industriale, oltretutto non limitato all’ambito strettamente militare, ma che va ad inglobarne altri, da quello delle tecnologie ai beni di investimento. Non è un caso che il PIL statunitense abbia avuto una rilevante crescita proprio dal terzo al quarto trimestre del 2001 (quando è scoppiata la guerra) e che negli anni successivi non ha smesso di lievitare, anche grazie alla miracolosa guerra in Iraq.
Democrazia, libertà, civiltà, lotta al terrorismo sono slogan che nascondono ben altro, slogan che però spesso convincono e sono fatti propri, nell’ignoranza, dai sostenitori di queste tragedie.
E allora, quale popolo civile manderebbe i suoi figli a morire? Non so se voi avete trovato una risposta intanto. Noi si: solo quel popolo che, senza stato, cosciente si ribella a logiche di potere che lo degradano a mero burattino, quel popolo che vuole liberarsi dal giogo di chi lo usa, lo inganna, lo manda in guerra, lo bombarda, lo rende apatico, lo uccide e poi lo commemora.
Vincenza Bagnato.

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