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mercoledì 25 gennaio 2012

NON E' LA CRISI, SEI TU

Non è la crisi, coglione! Finiscila di ripetere parole che non conosci. E’ il loro onnipresente opportunismo, la loro avidità spregiudicata e criminale.

Ci si sta riferendo alla lunga lista di licenziamenti in corso in Italia, da nord a sud, da est a ovest. Neanche la melensa mitologia risorgimentale riuscì in tanto: unire gli italiani in una medesima sorte.

I dati servono meglio delle chiacchiere a capire: 300mila lavoratori sono, ad oggi, in fase di trattativa per difendere il posto di lavoro. 40mila di loro hanno già il destino segnato, gli altri sperano ancora. Non sono dati di parte, li rende pubblici il Ministero dello Sviluppo Economico con il suo periodico necrologio.

La Jabel ex-Nokia-Siemens ha buttato in mezzo alla strada 325 lavoratori tramite un fax, e questo almeno segna la consapevolezza del loro fare schifo. I lavoratori si battono ancora occupando gli stabilimenti e aspettano risposte vivendo comunitariamente il calpestio della loro dignità lavorativa.

Lo stabilimento di Cassina de Pecchi (MI) chiuderà, mentre assessori e consiglieri comunali e provinciali si rammaricano oggi per non aver capito la crisi del settore in tempo. Ai lavoratori, com’è giusto che sia, non rimane che organizzarsi dalla base.

Itatel, leader nel settore delle telecomunicazioni, nonostante avesse chiuso il bilancio 2010 con un +3,9% di netto cui in maniera inspiegabilmente proporzionale seguivano continui tagli di personale, oggi si ritrova a concedere una cassa integrazione ai 244 lavoratori in “esubero”, pari a 320 euro (detrazioni escluse) mensili.

A Faenza, la Omsa – produttrice mondiale di calze e collant – di Nerino Grassi licenzia 325 operaie per delocalizzare in Serbia. Anche qui, non è questione di crisi ma di convenienza: lo Stato serbo concede incentivi economici per gli imprenditori.

Si tratta di sgravi fiscali tra i 5.000 e i 10.000 euro per ogni assunzione, di esenzione dall’imposta sugli utili societari per grandi investimenti e grandi assunzioni per 10 anni e, anche e soprattutto, di stipendi medi annui per gli operai che si aggirano tra i 5 e i 6mila euro.

In questo caso si parla già di guerra tra Stati più che di economia, e la Serbia a quanto pare la sta vincendo su entrambi i fronti, sulla pelle dei suoi lavoratori. Non è la crisi, dunque. E, del resto, la crisi l’hanno comunque creata loro con la loro economia virtuale fatta di dati borsistici e azioni invece che di produzione reale.

Ma non è questo il punto. Non vogliamo maggiore produzione. Non vogliamo maggiori investimenti a queste aziende che per rimanere pretenderebbero lo scalpo dei nostri operai. Vogliamo un’altra economia, fatta di volti, di capacità, di cooperazione e di solidarietà.
Ma per fare questo, prima, ci vuole una nuova umanità e, ancora prima, un nuovo “te stesso”.

Marco Masulli

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